sabato 13 aprile 2013

Cees Nooteboom, Il suono del suo nome. Viaggi nel mondo islamico


Confesso che prima di leggere Il suono del suo nome (Ponte alle Grazie, Milano 2012)non avevo mai letto nulla di questo prolifico scrittore, poeta e giornalista olandese, che ha al suo attivo romanzi di grande successo, come Philip e gli altri, la sua opera prima, pubblicata nel 1954, e resoconti di viaggio, come Verso Santiago, raccolta di appunti di viaggio scritti in anni diversi e relativi al cammino di Santiago di Compostela.

Nooteboom, che ama definirsi soprattutto un poeta, è infatti anche un grande viaggiatore e nella sua ormai lunga vita (è nato all'Aia nel 1933) ha percorso tutti i continenti e visitato decine di paesi: scherzosamente viene addirittura definito "l'olandese viaggiante". Anche Il suono del suo nome è una raccolta di impressioni di viaggi compiuti, come recita il sottotitolo, "nel mondo islamico": dalla favolosa Isfahan alla splendente Granada, dalla rossa Marrakech, "chiave dell'Atlante e del Sahara" (p. 51) a Timbuctu, sommersa dalla sabbia, dall'India dalle mille contraddizioni, "tombe Moghul e fogne a cielo aperto, minareti e catapecchie" (p. 178) alla superba  Kairouan con la Grande Moschea e la sua selva di colonne...

I brevi capitoli che compongono il libro sono datati a partire dal 1960, fino al 2003: questo sgranarsi di tempi   ormai lontani conferisce ai diversi brani il fascino di un altrove non solo spaziale e fa sì che le riflessioni di Nooteboom assumano un significato molto più profondo delle semplici osservazioni di un viaggiatore curioso: sicuramente infatti molte delle situazioni descritte saranno mutate e luoghi fino a quel momento remoti e incontaminati saranno stati raggiunti da una modernità che non è sempre sinonimo di vita migliore. Ma ciò non diminuisce la suggestione delle parole di Nooteboom, che guarda i luoghi visitati con occhi non contaminati dai pregiudizi di tanti viaggiatori occidentali: non giudica, non critica, semplicemente si lascia invadere da colori, odori, voci e volti, si lascia offuscare dalla sabbia e arrostire dal sole, entrando nel cuore dei paesaggi e degli ambienti, finendo talvolta per sentire con dolorosa profondità quanto lontano ed estraneo egli sia rispetto a questi mondi, che si svelano a poco a poco, e mai completamente:

Che cosa so adesso di questo paese? Ci sono, mi ci trovo, ma ogni passo che faccio è in un mondo diverso. Vengo capito se parlo in francese, riesco a farmi dare camere d'albergo e a spostarmi con piccole carrozze, ma le voci che sento sono estranee, non le comprendo. Molto più dei paesi europei, il Marocco è un territorio che dev'essere conquistato, perché si è estranei, stranieri, in modo molto più profondo. A una visita superficiale una terra straniera è un paesaggio esotico, romantico, pittoresco, qualcosa di cui scrivere a casa. Ma più a lungo ti fermi, e più vai a sud, più cadi in trappola, più diventi un estraneo anche per te stesso...(p. 61)

E per penetrare in questo mondo nascosto, non basta addentrarsi nei suk delle città e trovarsi avvolti in "una rete, una ragnatela, un intrico di stradine strette in cui le automobili non passano, tunnel, quasi, con ai lati cavità in cui sono seduti ciabattini, tessitori, ramai, profumieri, venditori di volatili e spezie (p. 92).
Il senso di appartenenza non è che momentaneo, evanescente, e il mistero di questo mondo non si svelerà facilmente al semplice turista:

La città che dev'esserci al di fuori, o tutt'attorno, non esiste più, questo è il labirinto dentro il quale resterò, nel picchiettio dei martelli sul rame, nelle grida prolungate che significano qualcosa, nei secchi pieni di zampe di mucca, davanti a cantine basse e buie in cui gli uomini si riuniscono a giocare a carte e bere tè di menta, tra profumi di cuoio, carne, dolci rotondi e dolcissimi, stoffe [...] ... ma così come sono entrato, a un certo punto cado fuori, una porta, la luce del sole, una strada vera, taxi, mi guardo intorno ed è come se dietro di me si sciogliesse e svanisse qualcosa che non c'era (p.92-93).

E a tratti, invece, eccoci trasportati in un mondo modellato da una bellezza e da una perfezione quasi insopportabili, dove l'animo del viaggiatore si perde e risuona insieme con ciò che gli sta intorno:

Ovunque fumano piccoli fuochi. Uomini in djellaba bianche e marrone formano grandi cerchi intorno ai cantastorie, i cavalli e gli asini riempiono gli spazi vuoti tra i cerchi, e ai margini di questo cosmo ci sono i grandi camion che tra poco riporteranno i berberi nei loro villaggi sperduti e lontani, in alto sull'Atlante pietrificato sopra il quale la luna viene sollevata come uno specchio. Io scendo. Nell'oasi c'è silenzio. Tamburi in lontananza, e qui mormorio d'acqua, fruscio di palme. Un romanticismo quasi insopportabile, bianco chiarore di lune sulle rovine di fango color ocra [...] (p. 170).

Acuta è la consapevolezza, da parte dello scrittore, di quanto questo mondo sia precario, in pericolo, luoghi che saggezza vorrebbe fossero cancellati dalle carte geografiche e dalle guide turistiche, per preservarli e impedire che la spietata omologazione portata dagli occidentali li consumi per sempre. Così è per esempio per le mitiche terre dei dogon:

Ho la sensazione che la pace intorno a me sia un elemento tangibile, di poterla toccare ovunque. C'è un silenzio totale, non si sentono che i nostri passi e i nostri sospiri quando iniziamo una salita. Questa è una valle magica, una Shangri-La che esiste davvero, e ora, molto tempo dopo, ora che sono a casa mia, e ascolto la musica dei dogon e guardo le fotografie sui cui le persone sono diventate le loro maschere, provo ancora quella stessa felicità mista a nostalgia, perché so che non ci tornerò mai più. E se anche dovessi tornarci, sarebbe ancora uguale? Per quanto tempo il nostro mondo consentirà al loro di esistere? (p.154).

Ma oltre la fascinazione arcana di un mondo così straordinariamente ricco nei suoi paesaggi, nella sua arte e nei suoi esseri umani, ovunque nel libro di Nooteboom si avverte l'ansia di di capire e di far capire, di abbattere cioè quella barriera che separa l'Islam dall'Occidente, che non è fatta solo di visioni  diverse e di valori ritenuti incompatibili, ma è costruita soprattutto sulla reciproca non conoscenza, sulla istintiva diffidenza con cui accogliamo ciò che ci è ignoto.

Ed è proprio con questa idea che si chiude il libro di Cees Nooteboom, in una pagina scritta nel 2004, dopo  che la guerra in Iraq, prevista come breve e mirata all'abbattimento del dittatore, si era ormai trasformata in una logorante guerriglia contro un nemico sfuggente e senza volto, un lungo e sanguinoso capitolo di un conflitto sempre più esasperato non solo tra eserciti, ma soprattutto tra mondi contrapposti:

Con il "nostro" esercito in Iraq e Afghanistan, la penetrante irradiazione del modello occidentale su tutto il globo da un lato, e dall'altro il terrorismo dei fondamentalisti e le vaste popolazioni musulmane in Europa, siamo diventati gli uni la quinta colonna degli altri, in un conflitto che non si concluderà nel corso della nostra vita. Se c'è un inizio di soluzione, può essere soltanto nell'eliminazione dell'incredibile ignoranza degli uni nei confronti degli altri (p. 233).

Cees Nooteboom, Il suono del suo nome, Ponte alle Grazie, Milano 2012.

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