sabato 27 aprile 2013

Arturo Pérez-Reverte, Le barche si perdono a terra. Scritti su barche, mari e marinai (1994-2012)


Da brava abitante dell'entroterra, ho poca dimestichezza con il mare, che non mi attrae nemmeno nella sua versione estivo-balneare. Per questo motivo, mesi fa passando davanti, in libreria, a questa raccolta di scritti di Arturo Pérez-Reverte, avevo tirato di lungo, senza troppe curiosità. Ritrovando in seguito il libro nella Biblioteca della mia città, mi sono invece lasciata  lasciata prendere dalla forza evocativa del titolo, Le barche si perdono a terra (Tropea, Milano 2012), e  dalle promesse che il nome dell'autore suggeriva. E questa improvvisa intuizione si è rivelata giusta.

Arturo Pérez-Reverte, per chi non lo conoscesse, è giornalista, autore di romanzi storici e di avventure tradotti in tutto il mondo (ricordiamo soprattutto il ciclo del Capitano Alatriste) e marinaio. Dal 2003 è membro della Real Academia Española de la Lingua. Le diverse esperienze della sua vita si ritrovano in questo libro, che raccoglie scritti in parte inediti, in parte pubblicati su XL Semanal, nella rubrica "Patente di corsa". 

Gli argomenti e lo stile dei brani, sono molto diversi: si va dai commenti a fatti accaduti (tra questi spicca purtroppo il brano Capitani coraggiosi, o no dedicato alla Costa Concordia e al suo capitano, sul cui coraggio è penoso esprimere dei giudizi) ai ricordi di viaggi e di incontri, alle rievocazioni di momenti della storia della gloriosa marineria spagnola, ai riferimenti a letture antiche o recenti (tutti libri sul mare, ovviamente!). Quanto allo stile, accanto a brani intensamente evocativi e pieni di poesia, che esprimono  la profonda e a volte dolorosa conoscenza del mare e dei suoi moti, troviamo feroci invettive e taglienti sarcasmi, i cui oggetti sono diversi: i presuntuosi e incompetenti navigatori "della domenica",  ricchi solo di denaro e sprovvisti di qualunque conoscenza e rispetto verso il mare; i tradizionali nemici della marina spagnola, cioè i "cani inglesi" (p. 99), che Pérez-Reverte considera valorosi marinai, ma storici infedeli, abili a stravolgere le verità della Storia; le autorità spagnole, incapaci, secondo l'autore, di sostenere e valorizzare l'enorme patrimonio storico e culturale accumulato dalla Spagna in secoli di combattimenti, esplorazioni, commerci sul mare.

Leggendo i brani di questo tenore, capita di  dimenticare che l'autore sta parlando della Spagna:

Non c'è niente di meglio che guardare indietro per capire quello che siamo. Per renderci conto che, in questa infelice terra popolata da qualche persona perbene e da innumerevoli mascalzoni, non succede niente che non sia già successo prima. [...] Quando ritorni dall'estero o guardi un telegiornale, ti accorgi che è tutto uguale, giorno dopo giorno (p. 273).

L'amaro giudizio contenuto in queste parole, così come, altrove, l'invettiva contro "questo paese miserabile" (p.123) o la rappresentazione grottesca dei ministri e funzionari spagnoli suonano talmente familiari da farci pensare che l'autore sia un italiano alle prese con le delizie della nostra realtà sociale e politica. Viene da chiedersi se questa disponibilità al severo giudizio su di sé non sia addirittura un tratto tipicamente mediterraneo, vista la differenza, che Pérez-Reverte più volte sottolinea, con lo smisurato orgoglio, per esempio, degli inglesi, convinti di essere sempre i migliori e capaci di passare sotto un tombale silenzio le sconfitte subite o, addirittura, di presentarle come gloriose vittorie.

Da molte pagine del libro emerge tuttavia l'intima consapevolezza di appartenere a una razza a parte, antica, inestinguibile, la razza di chi da millenni percorre con cuore di leone  il Mediterraneo, un mare che solo gli incompetenti giudicano innocuo, un mare che da sempre ha visto eroi, pirati, mercanti ed esploratori, compiere gli stessi gesti, vivere le stesse avventure:

Il sapore delle alici e delle sardine che Rafa arrostisce nel bar è identico a quello che conobbero coloro che, nove o diecimila anni fa, navigavano già per questo mare interiore, utero di ciò che siamo stati e di ciò che siamo. Mercanti che trasportavano vino, olio, viti, marmi, piombo, argento, parole e alfabeti. Guerrieri che espugnavano città con cavalli di legno e poi, se sopravvivevano, facevano ritorno a Itaca sotto un cielo che la loro sagacia spopolava di dei. Antenati che nacquero, lottarono e morirono accettando le regole apprese da questo mare saggio e impassibile. (p. 278)

Infiniti i riferimenti letterari evocati da queste pagine: mentre leggiamo, davanti a noi l'Hispaniola, il Patna, il Pequod sfilano silenziosamente all'orizzonte, trasportando indimenticabili eroi, discendenti di quel primo navigatore che, non contento di aver trascorso dieci anni a combattere esseri umani, ne passò altri dieci solcando le acque del Mediterraneo e combattendo vendicativi dei del mare e crudeli mostri monocoli, insaziabile nella sua curiosità, aperto a ogni avventura. Leggendo le pagine di Pérez-Reverte, per la prima volta mi sono resa conto di quanto la letteratura italiana sia inesplicabilmente povera di narrativa di viaggio e d'avventura: oltre a Marco Polo, l'unico nome che mi viene in mente è quello di Emilio Salgari, sdegnosamente relegato dai critici letterari ai livelli più bassi della narrativa, almeno in  parte, sicuramente, per il pregiudizio che classifica questo genere di racconti come opere di puro consumo o, tutt'al più, destinato ai palati ingenui di bambini e ragazzi. Dimenticando, dall'alto di una presunzione piena di supponenza, che a un viaggio, irto di pericoli sconosciuti, sguardo gettato negli abissi più neri ed elevato alle più luminose altezze, è dedicata l'opera più grande della letteratura italiana, con quel viandante smarrito, ma aperto all'avventura, che tutti ci rappresenta.

Arturo Pérez-Reverte, Le barche si perdono a terra. Scritti su barche, mari e marinai (1994-2012), Tropea, Milano 2012. 

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