lunedì 4 marzo 2013

Anita Desai, Il villaggio sul mare

Per assaggiare ancora un po’ di India, un romanzo breve e neppure tanto recente: mi riferisco a Il villaggio sul mare di Anita Desai, pubblicato nel 1982 e in Italia nel 2002. E’ sempre piacevole leggere o rileggere questa scrittrice, nata e vissuta a lungo in India, a Calcutta, Bombay, Delhi, di madre tedesca e di padre bengalese. Oggi, invece, vive tra gli Usa, il Messico e l’India, dove ritorna spesso. 

Il romanzo ha qualcosa di autobiografico, come lei stessa dichiara nell’introduzione. “Non viene dalla mia infanzia, ma dall’infanzia dei miei figli”. Anita viveva a Bombay e, quando era possibile, fuggiva da una città affollata e piena di problemi, per andare al mare, in un piccolo villaggio di pescatori, per vivere in un’atmosfera idilliaca:  “correre a piedi nudi sulla sabbia tiepida e fin dentro il mare, guardare le barche che tornano a riva al tramonto con le reti colme di pesce, nei pomeriggi torridi riposare all’ombra di palme fruscianti, placare la sete con il latte di cocco fresco”


Nel romanzo sono già presenti le minacce di un cambiamento, perché in quel luogo incantato sta per essere insediata una gigantesca fabbrica di fertilizzanti, con tutte le conseguenze di inquinamento della terra e del mare. Nehru, padre fondatore dell’India, del resto, aveva dichiarato che dighe e fabbriche sarebbero stati i templi dell’India moderna. Il romanzo racconta di una famiglia che, per l’alcolismo del padre, la malattia della madre, ridotta un logoro cencio grigio, con i quattro figli, Bela, Kama, Lila e Hari, viveva in povertà estrema, poiché non possedevano nulla, né una vacca, né una barca, né assistenza sanitaria né servizi educativi. Dei quattro figli, due sono i protagonisti, Lila e Hari, che non possono più permettersi neppure di andare a scuola. Con loro c’è anche Pinto, un cane piccolo e peloso, bianco e nero, che morirà avvelenato. Molto poetico l’incipit, quando Lila ogni mattina esce dalla sua povera casa ed entra in acqua e "in un luccichio roseo e violetto” augura il buon giorno a Dio, offrendo fiori al mare. 

Fin dalle prime pagine entriamo in contatto con la natura: la rugiada che fa brillare le ragnatele, le farfalle che scivolano leggere e innumerevoli uccelli ricordati con il loro nome, pettirossi, bulbul crestati, fagiani, piccioni che tubano. E sono la voce del villaggio di Thul, così come lo era il mormorio delle onde e il fruscio del vento nel palmeto. Spesso sono ricordate piante come i frangipane o fiori magici come calendule, gelsomini, ibiscus, allamanda. C'è chi come Ramu, l’amico di Hari, auspica un cambiamento grandioso, perché in tempi brevi si farà piazza pulito di tutto, per costruire una grande fabbrica, che dovrebbe portare molti posti di lavoro. Si produrranno fertilizzanti, prodotti chimici, azoto, ammoniaca, urea, per far crescere le piante. Un complesso moderno e scientifico, per produrre qualcosa che doveva sostituire il letame, o la polvere di pesce, per far crescere le palme, per produrre tonnellate e tonnellate di materiale da vendere ai contadini in tutta l’India ed anche all’estero. A differenza del letame, il fertilizzante bisognava comperarlo. “La testa di Hari era affollata di immagini di fabbriche meravigliose, altissime ciminiere, nuvole di fumo dagli strani odori, una folla di gente che varcava i cancelli e tra loro un ragazzino in calzoncini cachi e uno straccio di camicia, lui." 

Per gli uomini di Thul l’unica alternativa alla pesca era coltivare i campi lungo la costa, ma le cose potevano cambiare con l’arrivo della grande fabbrica. Questo significava perdita delle terre che producevano, riso, verdure, noci di cocco. Si parlava della fabbrica, ma tutto sembrava tranquillo: "come al solito sari sgargianti appesi ad asciugare, donne che innaffiavano il basilico sacro sulla soglia, le donne del mercato che riaggiustavano ininterrottamente le ghirlande di fiori e le banane sui vassoi di foglie, ma l’atmosfera sonnolenta aveva ceduto il posto ad una atmosfera piena di risentimento e rabbia”. 

Ma c’è anche chi come Ardakar, membro del parlamento dello stato del Maharashtra, si batteva per i diritti dei contadini e pescatori, per continuare con il sistema di produzione tradizionale. Incerto è Hari: 

Doveva unirsi ai contadini e ai pescatori, lui che non possedeva né terra né barca e marciare su Bombay protestando contro il furto della terra e dei posti di lavoro? Oppure schierarsi dalla parte del governo e della fabbrica e tentare di ottenere un lavoro nel modo strano e nuovo portato dalla città?" 

Aveva le idee confuse, ma tutto sommato lo allettava di più l’idea di andare a Bombay. E andrà a Bombay proprio il giorno in cui è stata organizzata una manifestazione da Ardakar e, alla vista della città con i suoi edifici slanciati, imponente davanti alle onde vischiose del mare, sarà sopraffatto da una sorta di timore reverenziale. Nuovi odori e rumori, come quello del traffico. "Hari era eccitato e spaventato: non aveva mai visto un semaforo, non aaveva mai visto tante luci, tanti neon cangianti delle insegne pubblicitarie che si accendevano e spegnevano, verde, azzurro, arancione"

Ardakar nel suo discorso ribadirà che le fabbriche di Thul-Vaishet emaneranno gas chimici mortali: diossina, ammoniaca, polvere, contamineranno una zona vastissima fino a Bombay, già gravemente industrializzata, affollata e fortemente inquinata. Bombay la grande città con eleganti palazzi rosa, verdi e gialli con nomi come Gabbiano e Raggio di sole, un mondo luccicante di appartamenti di lusso, dove abitavano i ricchi, ma anche con tanti tuguri.

Hari a Bombay riesce a trovare un lavoro grazie alla solidarietà di povera gente. Lavorerà per una rupia al giorno a lo Sri Krishna, una locanda tutta nera, la più miserabile che avesse mai visto. Conosce anche un orologiaio gentile e generoso, il signor Panwallah, che gli insegnerà i primi rudimenti per aggiustare gli orologi, anche se a Thul nessuno possiede un orologio. Tutti regolavano il tempo sul sole o sulle maree. A Thul, intanto, la madre morente è soccorsa dalla famiglia De Silva in vacanza: è portata all’ospedale, dove si riprenderà con accanto il marito che riesce a disintossicarsi dall’alcol . I De Silva fanno pensare alla famiglia di Anita Desai in vacanza al mare in questo piccolo villaggio. 

La trama del romanzo è semplice: Hari ritorna a Thul, nella sua mente sono ferme le parole dell’orologiaio: La ruota gira non si ferma mai, “imparare, imparare sempre, ragazzo mio, per crescere e cambiare”. Torna con un po’ di rupie in tasca, in tempo per festeggiare in famiglia Diwali, la festa delle luci, alla fine del monsone, una delle più importanti feste indiane che simboleggia la vittoria del bene sul male. Il romanzo si chiude con la speranza di una vita migliore insieme nel villaggio, anche se su di esso incombe la fabbrica con le sue promesse di lavoro, ma soprattutto con la minaccia di un cambiamento radicale. Siamo negli anni settanta e Anita Desai, in un’India ciclicamente afflitta da carestie e fame, si fa interprete delle paure per la politica economica del successore di Gandhi, Nehru, che aveva attuato programmi di industrializzazione pesante tra il 1947e il 1964, quando era stato primo ministro. Quasi profetico il romanzo della Desai, se pensiamo alla tragedia di Bhopal del 1984, alla fabbrica di pesticidi, il cui impianto è del 1969 , che causò più di 2000 morti e mutamenti nel genoma di animali, piante e soprattutto dell’uomo. Come non pensare oggi alle battaglie di Arundhati Roy,architetto, scrittrice, autrice di un grande romanzo, Il Dio delle piccole cose (1997), ma soprattutto impegnata su temi ecologici, nei movimenti antiglobalizzazione, contro il neoliberismo economico, contro le grandi dighe che hanno provocato in India lo sfollamento di oltre 35 milioni di persone.

Il villaggio sul mare, come altri romanzi della Desai, è stato tradotto da Anna Nadotti, che ammira l’inglese della scrittrice indiana, il tintinnio cristallino, la musicalità, la severa dolcezza, l’esattezza, la classicità che viene dalla poesia urdu e dalla poesia romantica inglese, dal ritmo della scrittura di Virginia Wolf. La stessa Desai, di madre tedesca e padre bengalese, che parlava tedesco in famiglia e hindi con amici e vicini di casa e che poi si è laureata nel 1958 in letteratura inglese, dichiarò che nei suoi romanzi, sebbene scrivesse in inglese, era consapevole di tutte le lingue che si intrecciavano in lei, il tedesco della madre e l’hindi, una delle 22 lingue indiane, e con l’inglese, lingua ufficiale dell’India. 

Anita Desai, Il villaggio sul mare, Einaudi, 1982. pp 171.

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