martedì 17 luglio 2012

Javer Cercas, La velocità della luce

La velocità della luceIn Spagna ad un momento di grande crisi economica e di indignazione civile corrisponde una condizione particolarmente felice in ambito letterario, con un numero notevole di scrittori, la cui validità, sul piano della narrativa e della buona scrittura, è riconosciuta a livello mondiale. Mi riferisco a scrittori come Javer Marias, Almudena Grandes, Julio LlAmazares, Alicia Gimenez Bartlett, Enrique Vita-Matas, Rosa Montero, Carlos Ruiz Zafón e, certamente non ultimo, Javer Cercas, di cui ho letto con un’emozione particolare due libri, che ho trovato bellissimi: mi riferisco a Soldati di Salamina e a La velocità della luce. 

Ho pensato perciò di scrivere un invito alla lettura di La velocità della luce, romanzo pubblicato in Italia nel 2006. Il protagonista, che è anche il narratore in prima persona, è un aspirante scrittore spagnolo, che nella parte finale si identificherà con lo stesso autore Javer Cercas, il quale, dopo la pubblicazione di romanzi quasi ignorati dal pubblico e dalla critica, ottenne un grande successo con Soldati di Salamina.

Del resto è lo stesso Cercas a dichiarare in un’intervista che i romanzi sono sempre in qualche modo autobiografici e concorda con Lliosa quando dice che la letteratura è uno streeptease al contrario: nei romanzi c’è sempre la parte nuda: i nostri sogni, la nostra vita, in cui fatichiamo a riconoscerci. 

In La velocità della luce siamo nel 1987, quando l’aspirante scrittore, un po’ bohemièn e in fuga dalla noia della provincia spagnola, ottiene una borsa di studio e si trasferisce negli Usa, a Urbana, nel Midwest. "Un isolotto di 150.000 anime spuntato in mezzo a campi di mais, non più grande né meno provinciale di Gerona … più che una città un cimitero, dove presto sarei diventato un fantasma o uno zombie”. 

Nell’ambiente universitario, dove ha come colleghi dei giovani, come lui non ancora trentenni, nasce, dopo una iniziale diffidenza, una scontrosa confidenza con Rodney Falk, quarantunenne veterano della guerra in Vietnam, un omaccione corpulento e smarrito, riservato ed eccentrico, senza amici, con un profilo di uccello rapace, ferito nel corpo e nell’animo, con una benda all’occhio, zoppicante. “A prima vista con l’aspetto candido, strampalato anacronistico di certi hippy anni sessanta che non avevano voluto o potuto o saputo adeguarsi all’allegro cinismo degli anni ottanta.”  

Rodney era molto colto: con lui, che ammirava in particolare i racconti di Hemingway, era interessante scambiare giudizi di letteratura e, quando il narratore gli confida le sue ambizioni di scrittore, parlare di che cosa è un romanzo. “Le storie non esistono. Quello che conta è chi le narra. Se sai chi è, c’è già la storia, se non sai chi è non c’è storia."  Conversare con la sua lucidità delirante su che cosa è uno scrittore: "Tutti guardano la realtà pochi la vedono. L’artista non è colui che rende visibile l’invisibile, è colui che rende visibile quanto era già visibile, ma che tutti avevano sotto gli occhi senza poterlo o volerlo vedere”. Lo scrittore conferisce alla realtà un senso e per quanto illusorio può trasformarlo in bellezza e questa bellezza o questo senso sono il suo scudo. Rodney non nomina mai il Vietnam, ma parla dei politici “un’accozzaglia di bugiardi e filibustieri” e delle lobby economiche come il vero potere degli Usa. Quando, un giorno, il nostro aspirante scrittore, scopre che Rodney è stato improvvisamente sostituito all’università, va a cercarlo a Rahtoul, un piccolo centro operaio ed incontra il padre. Torna una seconda volta, dopo che è stato il padre a cercarlo, per consegnargli “un mucchio di lettere sgualcite che portavano il timbro dell’esercito statunitense, lettere provenienti da Saigon, da diversi luoghi della penisola di Batagan, lettere che abbracciavano un periodo di oltre due anni e portavano la firma dei suoi due figli, Rodney e anche Bob, ma soprattutto Rodney. Erano numerose e conservate in tre cartelle…”

Nella seconda parte del romanzo, Stelle a Strisce, sedici anni dopo quell’incontro il narratore ha tra le mani quelle lettere e si domanda ancora perché quel padre gliele ha consegnate. Le lettere di Bob, che era partito volontario erano rare e concise, quelle di Rodney frequenti e lunghe. Rodney, che frequentava la facoltà di lettere e filosofia e aveva aderito al movimento antimilitarista e pacifista, arrivata la cartolina per l’arruolamento, all’inizio del '68, arriva a Saigon, dove però ha un incarico subalterno, di ufficio, di retroguardia. Anche il padre era stato in guerra nel '43 come soldato semplice, per due anni aveva combattuto nel nord Africa, in Francia, in Germania e quella guerra era stata per il trionfo della libertà e grazie al suo sacrificio e a quello di tanti giovani il mondo era stato salvato dall’iniqua abiezione del fascismo. Era, pertanto, convinto che combattere nel sud est asiatico fosse una guerra santa come quella di 24 anni prima, per liberare un paese lontano e indifeso dall’ignominia del comunismo. 

Il narratore, a 25 anni, ignorava quasi tutto della guerra in Vietnam, “un rumore confuso dei telegiornali dell’adolescenza” e terminata da oltre un decennio, il 29 maggio del 1973. In quel giorno,  dopo aver perduto quasi sessantamila connazionali - ragazzi per la maggior parte sui vent’anni – e aver completamente distrutto il paese invaso, sganciandoci sopra dieci volte il numero di bombe cadute sull’intera Europa nella seconda guerra mondiale, l’esercito statunitense lasciò finalmente il Vietnam. Le lettere di Rodney, ora più prolisse e oscure, erano cambiate dopo la morte del fratello Bob, di cui non restava che qualche brandello di divisa insanguinato, per aver calpestato una mina con una carica esplosiva di settanta chili. Rodney, allora, avrebbe potuto tornare a casa, ne avrebbe avuto il diritto per il decesso del fratello e, invece, aveva domandato di essere integrato in un battaglione di combattimento. Il padre di Rodney, ora, capisce che questa guerra è diversa da quella da lui combattuta e forse da tutte le altre guerre … per mancanza di ordine, di struttura, di senso, in cui non si raggiungeva mai un obiettivo, non si perdeva, né si conquistava nulla. "Una guerra in cui regnava tutto il dolore di tutte le guerre, ma nella quale non c’era spazio per la benché minima possibilità di redenzione, fierezza o decenza che tutte le guerre offrono”. 

All’inizio del ‘68 Rodney scriveva che 

la cosa più atroce è che questa guerra non è una guerra. Qui il nemico non è nessuno, perché può essere chiunque e non sta da nessuna parte, perché è ovunque, sta dentro e fuori, sopra e sotto, davanti e dietro. Non è nessuno ma esiste. In altre guerre si trattava di sconfiggerlo, in questa no, si tratta di ucciderlo, malgrado che tutti sappiano che uccidendolo non lo sconfiggeremo … questa è una guerra di sterminio, quindi più ammazziamo –gente o animali o piante, fa lo stesso – tanto meglio . Faremo terra bruciata nell’intero paese … l’unica cosa che vogliamo è che passino quanto prima i dodici mesi per poi tornare a casa. Nel frattempo ammazziamo e moriamo … qui siamo tutti pazzi e soli .

E così le lettere diventano diverse e Rodney parla del “piacere di uccidere”, mentre compie massacri nei reparti di contro guerriglia, la Tiger Force, una divisione aviotrasportata, un reparto di 45 volontari che avevano assassinato, mutilato, torturato, stuprato centinaia di persone tra il gennaio e il luglio del 69, diventando famigerati, perché portavano appesi al collo, come trofei di guerra, file di orecchie umane infilate in stringhe da scarponi. Tornerà in patria sei mesi dopo, a fine estate del '69, con il petto corazzato di medaglie e una lesione al braccio. Ma troverà ancora chi recita slogan contro la guerra, contro gli assassini di bambini. Rodney capisce che nessuno torna mai dal Vietnam e anche lui non può più essere quello di prima, 

ridotto all’ombra del ragazzo brillante, operoso e giudizioso che era prima … restava sempre più immerso in una bruma impenetrabile, come un fantasma deambulante o uno zombie… come se vivesse ermeticamente chiuso in una bolla di acciaio

Nella terza parte del romanzo, Porta di Pietra, il narratore e aspirante scrittore che, tornato in Spagna, si è sposato con Paula ed ha un figlio, Gabriel, è diventato uno scrittore di successo e incontra a Madrid Rodney, cui mostra le lettere che il padre gli ha affidato. Nel frattempo si è documentato sulla guerra del Vietnam ed ha tentato di scrivere un romanzo, utilizzando il contenuto di quelle lettere. Chiede all’amico chiarimenti su alcuni punti oscuri, soprattutto, vuole sapere che cosa è realmente accaduto a My Khe. Il racconto di Rodney è rapido, freddo e preciso, la cronaca di una sparatoria, di un massacro, che poi era risultato immotivato, per poi vedere davanti a sé 

un ammasso informe di panni e capelli inzuppati di sangue e mani e piedi minuscoli sfracellati e occhi senza vita o ancora supplicanti,… un magma, umido e viscido, che sfuggiva alla sua comprensione, … tutto l’orrore del mondo concentrato in pochi metri di morte … da quel momento la sua coscienza abdicò e di quello che venne dopo conservava un ricordo onirico di incendi e animali sventrati e vecchi piangenti e cadaveri di donne e bambini con le bocche aperte come viscere all’aria. 

Il racconto drammatico si arricchirà ulteriormente, quando lo scrittore di successo tornerà quindici anni dopo negli Usa, per presentare il suo libro, e incontrerà la moglie di Rodney, Jenny, e il figlio Dan. Rodney si era impiccato quattro mesi prima. Nel frattempo anche il narratore ha conosciuto la tragedia, perché ha perso moglie e figlio in un incidente di cui si sente indirettamente colpevole. Anche lui è caduto nel tunnel della depressione, della solitudine, dei sensi di colpa. La perdita di Rodney è la perdita di un "amico che aveva tutto il senso del mondo … un simbolo oscuro e radioso come forse era stato Hemingway per lui.” Mentre parla con Jenny ricorda una lettera al padre in cui, dopo l’incidente di My Khe, parlava di bellezza della guerra, della velocità vertiginosa della guerra, 

e allora pensai che da quando ero a Rantoul avevo l’impressione che tutto avesse avuto un’ accelerazione, che tutto avesse preso a correre più in fretta del solito e ad un certo punto avevo avuto una folgorazione, una vertigine e un senso di smarrimento, pensai che senza rendermene conto avevo viaggiato più veloce della luce e ciò che adesso stavo vedendo era il futuro.

Alla fine il narratore decide che deve terminare quel libro che è la storia di Rodney, 

perchè scrivere era l’unico modo di guardare la realtà senza restarne distrutto … l’unico che poteva darle un senso o una parvenza di senso … mi aveva permesso di scorgere davvero e senza rendermene conto la fine del viaggio, l’uscita dal tunnel. Lo spiraglio nella porta di pietra, l’unica cosa che mi aveva tirato fuori dal sottosuolo per affrontare le intemperie e mi aveva permesso di viaggiare più veloce della luce.

Terminare il libro è in qualche modo mantenere vivi il figlio Gabriel e la moglie Paula e cessare di essere “chi ero stato fino ad allora, chi ero con Rodney . il mio simile, mio fratello- per diventare un altro, per essere in parte e per sempre Rodney". 

La velocità della luce non è né un saggio né un reportage sulla guerra del Vietnam. Piuttosto un romanzo di formazione su come la vita possa trasformare le persone, su come sia impossibile giudicare gli altri. “Voi potete anche credere che fossimo dei mostri, ma non lo eravamo. Eravamo come tutti. Eravamo come voi.” Certamente un libro che commuove, che ti tiene in tensione dalla prima all’ultima pagina, e fa riflettere e da cui fai molta fatica a staccarti.

Javer Cercas, La velocità della luce, Guanda, Milano 2006

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