giovedì 3 novembre 2011

Tahar Ben Jelloun: "Una Primavera non fa la democrazia". L''ESPRESSO n° 44, 3 novembre 2011

La Democrazia è una cultura, non un gadget. A convivere sulla base del rispetto reciproco si impara, e ciò richiede tempo: non si diventa democratici dall'oggi al domani. Anche se si è lottato per vivere in un sistema improntato alla libertà e alla democrazia, come è il caso dei paesi arabi, nei quali sta soffiando il vento della democrazia, non per questo si accede a uno stato di diritto con un semplice tocco di bacchetta magica. Quando un popolo riesce con la lotta a liberarsi e ad emanciparsi, dopo essere stato assoggettato per decenni ad un regime assolutistico e ingiusto, prima che possa dar vita ad un sistema politico in grado di promuovere la libertà e la responsabilità dell'individuo, è necessario che attenda per un periodo- detto di transizione- nel quale deve continuare a battersi.

Per questo motivo è fondamentale capire che nulla è acquisito una volta per tutte e che alcune forze nostalgiche di un recente passato e favorevoli alla regressione faranno di tutto per impedire una vera liberazione del paese. Di fatto, grazie alla ritrovata libertà, clan e gruppi diversi si affronteranno per imporre la propria visione del mondo. Questo è quanto sta accadendo in Egitto dalla fuga di Mubarak e in Tunisia da quella di Ben Ali. Il campo è libero, c'è spazio affinchè opinioni diverse si contrappongano sul terreno, in piazza, nelle famiglie e anche all'interno delle varie correnti.


Sappiamo tutti che i fedeli islamisti non hanno dato inizio alle rivolte arabe nè partecipato a esse, ma hanno cercato di saltare sul treno già in corsa. Adesso si avvalgono della libertà per imporre le loro tesi con la forza, con l'intimidazione e con le minacce. Ciò non significa, tuttavia, che riusciranno effettivamente a prendere il potere, come teme l'Occidente. Tra i sostenitori dell'islamismo e i laici c'è scontro aperto, e la cosa è del tutto nuova. L'esercito è dovuto intervenire a causa degli attentati commessi ai danni dei copti e il bilancio delle vittime è pesante: 24 morti e un centinaio di feriti. Non è la prima volta che i cristiani egiziani (i copti rappresentano tra il 6 e il 10 per cento della popolazione) sono presi di mira dai fanatici musulmani: la sera di capodanno del 2010 morirono ad Alessandria 23 persone; al Cairo il 7 maggio 2011 hanno perso la vita in 15.

In Tunisia alcuni islamisti hanno attaccato un'emittente televisiva privata, colpevole di aver trasmesso il film iraniano Persepolis, un cartone animato nel quale si rappresenta Dio, mentre per l'Islam ogni immagine di Dio è proibita. Del resto questi stessi islamisti avevano fatto di tutto per evitare che fosse proiettato un documentario realizzato da una donna, Nadia EL Fani. La sua pellicola riprende lo slogan anarchico" Nè Dio nè padrone", diventato in francese" Ni Dieu ni Maitre" e in Tunisia " Ni Allah ni Maitre". La regista ha quindi dovuto modificare il titolo provocatorio, ma continua nondimeno ad essere oggetto di minacce dagli islamisti.

In questi due paesi tutti i giorni si assiste allo scontro fra due correnti: gli uni vogliono instaurare una repubblica islamica, gli altri si battono per una repubblica della libertà, nella quale si possano esprimere liberamente opinioni di ogni tipo e si possa alimentare un dibattito pubblico. In altri termini si stanno scontrando qui due mondi diversi che mirano entrambi a dar vita a un nuovo stato. La battaglia non è finita. Assistiamo oggi ai presupposti di queste resistenze, e il risultato lo vedremo dopo le elezioni che si terranno nei paesi in cui è spirato il vento della primavera araba.

I casi di Libia e Yemen sono diversi, semplicemente perchè sono dominati da strutture tribali e faranno fatica a estrometterle insieme alle loro tradizioni, per dar vita a un sistema politico moderno. Il Comitato di transizione libico già accetta l'idea proposta dallo sceicco Ali Sallahi, leadere islamista che ha finanziato e armato i ribelli: "Noi siamo contrari all'idea di un emirato islamico, ma siamo favorevoli alla creazione di uno stato civile nel quale la legislazione si ispiri alla sharia, che ottiene il consenso generale della popolazione libica" Anche gli yemeniti parlano di sharia che dovrebbe servire a cementare lo stato che nascerà dopo il regime di Ali Saleh.

Questa è altresì la motivazione che alcuni adducono per non aiutare i siriani che si stanno facendo massacrare di giorno in giorno dall'esercito di Bachar el Assad. Sconcerta sentire alcuni cristiani ( in Siria ce ne sono un milione) paventare a tal punto un cambiamento di regime: temono, infatti, che dopo l'eventuale partenza di El Assad il loro destino possa finire nelle mani degli islamisti. Ma nulla è sicuro. L'opposizione siriana che si sta organizzando all'estero è laica e, se vincerà la guerra contro il clan di El Assad, instaurerà un regime di libertà e democrazia. Soltanto i cinesi e i russi perseverano nel dar credito a uno scenario catastrofico per legittimare il loro sostegno efferato a El Assad. In realtà, cinesi e russi difendono soltanto i propri interessi economici.


La primavera araba prosegue e dalle rivolte si passa alle rivoluzioni. Niente è ancora deciso. Tutto è possibile.

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